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BRUNO MOLEA: una vita dedicata al sociale e allo sport attraverso l’associazionismo

Bruno Molea, classe 1955, da sempre impegnato nelle politiche sociali, è da 12 anni presidente di AICS, Associazione Italiana Cultura e Sport. In questa intervista ci racconta il suo percorso all’interno del mondo dell’associazionismo, quanto sia importante parteciparvi e come sia possibile utilizzare lo sport per creare inclusione e comunità.

Come nasce la sua attività nell’associazionismo e come poi si sviluppa fino ad arrivare ad essere il presidente di AICS?

La mia vita associativa nasce 30 anni fa all’interno di AICS come singolo associato, poi sono diventato presidente di un circolo, poi di un comitato provinciale, successivamente membro della direzione, presidente regionale, membro del consiglio nazionale ed oggi sono qui da 12 anni.

Cosa l’ha spinta ad appassionarsi alle tematiche legate allo sport?

Io sono sempre stato appassionato di sport e l’ho anche praticato a livello professionistico, ma l’incontro con AICS è casuale perché all’epoca io ero responsabile organizzativo del partito socialista e mi chiesero se volevo occuparmi di un’organizzazione collaterale al partito che si occupava di sport. Così inizia la mia storia all’interno di AICS.

Da lì inizia anche una metamorfosi che ha accompagnato l’associazione e che riguarda in particolare noi come organizzazione. Abbiamo cominciato a camminare con le nostre gambe e a distinguerci da quello che era il movimento politico rispetto al movimento dell’associazionismo che aveva cultura e obiettivi completamente diversi, pur riconoscendone la paternità, fino ad arrivare all’indipendenza vera e propria. Dal momento in cui siamo diventati indipendenti abbiamo cominciato ad essere interlocutori ancora più validi per i cittadini che all’interno dell’associazione trovavano delle risposte, sia dal punto di vista sportivo, che culturale e sociale.

Da lì è iniziato anche un percorso di trasformazione dell’associazione, sempre meno immagine di partito e sempre più autonoma, sempre più attenta ai bisogni della gente, con particolare attenzione alle politiche sociali, utilizzando lo sport, non più come semplice elemento di promozione sportiva, ma come veicolo attraverso il quale far transitare una serie di politiche sociali, che hanno caratterizzato l’operato dell’associazione, fino a portarla ad essere una delle più grandi organizzazioni sul territorio con più di un milione di associati e con più di 13 mila società.

AICS oggi è un interlocutore a tutto campo con le istituzioni per i cittadini, indipendentemente dai colori politici che caratterizzano i governi del momento, perché fa cose che non hanno nulla a che vedere con la politica, fa politica sportiva, associativa, culturale.

Pur mantenendo una struttura piramidale ho sempre cercato di mantenere orizzontali i rapporti, quindi avvicinare quanto più possibile il vertice alla base, parlare con la gente, capire cosa la gente si aspetta da un’associazione come AICS.

Quali sono state le difficoltà nella trasformazione?

Quando abbiamo deciso di essere indipendenti abbiamo anche affrontato il problema della solitudine, che era un problema che ha spaventato molti. Abbiamo dovuto ricreare rapporti con le istituzioni senza avere una fede politica di riferimento. Diventare veramente un’associazione autonoma che si muove nel territorio è facile da dirsi, difficile da realizzarsi.

Oggi l’associazione ha rapporti con i governi per le cose che è capace di mettere in campo. Crearsi credibilità non è facile, rovinarsela è facilissimo. Diventare attendibile per le cose che fai e non per le appartenenze è altrettanto difficile, ma nel momento in cui lo diventi poi sei certo che non devi nulla a nessuno e che quello che ti danno è perché l’hai guadagnato sul campo, ed è una cosa che non ha prezzo.

 

Quali sono le attività sportive che svolgete nell’ottica di inclusione sociale?

A livello sociale c’è tutta quell’attività che intercetta le cosiddette tendenze che appartengono anche al modo di esprimersi della società stessa. Abbiamo il progetto Mamanet che abbiamo messo in campo in Italia. Mamanet è uno sport che proviene da Israele ed ha avuto un riconoscimento dall’Onu come sport di grandissimo valore sociale, che ha come obiettivo di condurre le donne che diventano madri nell’alveo di una vita sociale diversa, che è fatta anche di momenti di tempo libero e di socializzazione. Si rivolge alle mamme e alle donne che hanno superato i 35 anni. C’è un grande coinvolgimento dei soggetti attivi che ruotano attorno alla donna, ad esempio mariti e figli.

Un’altra attività è quella di intercettare tutti gli sport emergenti nelle periferie che riguardano i giovani, perché sono un elemento per interagire con loro, che sono la linfa vitale del paese e della nostra associazione, perché senza giovani non c’è futuro.

Qui lo sport ben si sposa con le politiche sociali, perché permette di svolgere un ruolo all’interno di fasce giovanili ad alto rischio. Attraverso lo sport vengono intercettate e poi si cerca di ricondurre i giovani a condizioni di vita meno rischiose e meno borderline. Per noi lo sport rappresenta l’elemento principale per coniugare qualsiasi azione di politica sociale che si voglia mettere in campo.

Agli inizi ci siamo occupati – altro elemento di cambiamento – di detenuti giovani e adulti. La preoccupazione era intervenire nel regime di detenzione per creare un cittadino diverso. Attraverso lo sport e attraverso attività teatrale. Tra  i nostri affiliati vi è, ad esempio, la storica Compagnia teatrale Stabile assai di Rebibbia. Oggi non ci occupiamo solo di detenuti, ma cerchiamo di intervenire a monte, con la prevenzione.

C’è poi tutta un’altra fascia di società civile che soffre, che è fatta di anziani e famiglie, ed anche nei loro confronti stiamo muovendo dei progetti che offrano opportunità di partecipazione.

Abbiamo un progetto sportivo volto all’inclusione sociale dei migranti. Siamo centro accoglienza per i migranti dal 2015, da lì ci siamo evoluti e siamo diventati una specie di scuola di coesione sociale attraverso lo sport.

C’è risposta da parte dei giovani alle iniziative?

I giovani partecipano se tu parli la loro lingua. Se pensi di mettere a disposizione dei giovani un modello che a loro non interessa ovviamente non c’è partecipazione. Laddove siamo riusciti a parlare la lingua dei giovani, i giovani ci sono stati.

Un messaggio per i giovani?

Noi abbiamo bisogno dei giovani per tre motivi: per la loro esuberanza, per la loro capacità di intercettare le tendenze e per continuare a dare vita a questa associazione. Io chiedo ai giovani di avvicinarsi al mondo dell’associazionismo e di contribuire. Diversamente il cerchio si chiuderebbe.

Non a caso abbiamo avviato il progetto Sport in comune, dedicato ai ragazzi fra i 6 e i 14 anni residenti nei piccoli Comuni. I primi attori in questo caso sono i Comuni di periferia, e noi ci mettiamo al loro servizio. Sono i comuni che promuovono nei loro territori lo sport per i cittadini.

Un altro bellissimo progetto culturale e sportivo è Pinocchio con la racchetta, che nasce con la Fondazione Collodi: andiamo nelle scuole, forniamo gli strumenti per far provare i bambini a giocare a tennis e poi chi arriva alla fase nazionale dei giochi, vince un soggiorno a Collodi per visitare il parco di Pinocchio, ed una borsa di studio di un anno per praticare tennis gratuito. La scuole hanno gradito molto.

Per i più grandi siamo anche promotori di progetti che prevedano la crescita di giovani dirigenti sportivi, per creare una classe dirigente di Young Leaders, i manager del futuro nell’ambito sportivo.

*Sara Fiori

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Italiani bella gente

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